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La Fed rallenta il ritmo della stretta: tassi su dello 0,25%

Dopo la BCE, il 22 marzo è stata la volta della banca centrale USA, che per placare l’ansia dei mercati si è limitata a un rialzo da 25 punti base.

La recente instabilità finanziaria, innescata dal fallimento della californiana Silicon Valley Bank, non ha fermato la Fed nel suo percorso di stretta monetaria: i tassi di riferimento sono stati aumentati di 25 punti base. Una decisione che punta a portare avanti la lotta contro l’inflazione, senza gravare troppo su un sistema bancario ancora scottato dal default di SVB.

“La disinflazione è in atto”, ha detto il capo della Fed, Jerome Powell. Una mini-stretta, insomma, che ha spiazzato quanti si aspettavano una pausa dai rialzi dei tassi, i quali ora si collocano nella forchetta tra il 4,75 e il 5%. Curioso di sapere i dettagli dell’ultima mossa della Fed? Ecco i punti chiave.

Negli States la disinflazione è in atto

Alla fine ha prevalso la prudenza: la banca centrale USA si è limitata a un rialzo da 0,25 punti, portando così i tassi di riferimento al 4,75-5%, ai massimi dal 2007, contro un aumento atteso, prima della crisi bancaria, di 50 punti base. Certo, Powell ha escluso un taglio dei tassi entro la fine dell’anno, dal momento che la lotta all’inflazione sarà ancora “lunga” e “accidentata”.

Tuttavia, le turbolenze del sistema bancario potrebbero facilitare il compito di riportare la crescita dei prezzi verso l’obiettivo del 2%. È possibile che la Fed “abbia meno lavoro da fare”, ha detto Powell, ricordando che il fallimento di alcune banche regionali statunitensi, a cominciare dalla SVB, potrebbe determinare una stretta creditizia per famiglie e imprese. Per questo “le decisioni saranno prese meeting per meeting totalmente in base ai dati”, ha spiegato.

La Fed ha anche rivisto al ribasso le stime sul PIL statunitense, con una crescita prevista allo 0,4% nel 2023 (contro il +0,5% atteso a dicembre), mentre la disoccupazione dovrebbe attestarsi al 4,5%. L’indice dell’inflazione PCE - il Personal Consumption Expenditures, principale misura di inflazione utilizzata dalla banca centrale statunitense - è previsto al 3,3% nel 2023, contro il 3,1% delle stime di dicembre. Il picco dei tassi è stimato attorno al 5,1% a fine anno.

Ma non siamo davanti a una nuova Lehman

La scelta di non abbassare la guardia contro l’inflazione si spiega anche con le condizioni dei mercati. Come hanno ripetuto nei giorni scorsi le autorità americane ed europee, infatti, la situazione attuale non ha nulla a che vedere con la crisi finanziaria del 2008. Innanzitutto, le dimensioni degli istituti di credito statunitensi coinvolti dalle turbolenze delle ultime settimane non sono assolutamente paragonabili a quelle di Bear Stearns o Lehman Brothers, i cui default furono all’origine della crisi del 2008.

In secondo luogo, i motivi per cui SVB e altre banche sono finite nei guai non riguardano la diffusione su scala globale di titoli illiquidi o tossici come i mutui subprime, che all’epoca fecero tremare le banche di tutto il mondo, ma hanno più a che fare con un modello di business molto concentrato su alcuni settori dell’economia, in particolare le start-up tecnologiche, e con una cattiva gestione della liquidità.

Il punto sulle banche statunitensi

“I nostri istituti sono forti e resilienti”, ha quindi rassicurato il presidente Powell. “Abbiamo visto che problemi isolati, se non affrontati, rischiano di minare la fiducia e la stabilità del sistema. Per questo la Fed è intervenuta ed è pronta a usare tutti gli strumenti a disposizione per mantenere al sicuro il sistema bancario. I risparmiatori sono al sicuro”.

Silicon Valley Bank, la banca californiana che ha innescato la crisi di fiducia che ha travolto anche altri istituti regionali, “ha fallito gravemente” nella sua gestione, ha spiegato Powell nella conferenza stampa che, come prassi, ha fatto seguito al meeting. Il numero uno della Fed ha comunque sottolineato l’esigenza di “rafforzare la vigilanza e le regole” sulle banche.

Rialzo da 50 punti base per la BCE

E in Europa, attraversata recentemente dalle inquietudini per le sorti di Credit Suisse? Nonostante le turbolenze sui mercati finanziari, amplificate dalle difficoltà del colosso svizzero, poi risolte in seguito alla fusione con UBS, giovedì 16 marzo la Banca Centrale Europea ha alzato i tassi di 50 punti base, dando seguito all’impegno preso durante il precedente meeting di febbraio. A spingere in questa direzione è stata la volontà di domare un’inflazione che, seppur in discesa, con le stime che la proiettano al 5,3% quest’anno e al 2,9% nel 2024, è ancora troppo elevata rispetto all’obiettivo del 2%.

Malgrado il parere contrario di alcuni membri del Consiglio, Francoforte ha così deciso di portare il tasso sui depositi al 3%, mentre quelli di rifinanziamento principale e marginale sono arrivati, rispettivamente, al 3,5% e al 3,75%. La novità è che, al contrario delle precedenti riunioni, la BCE non ha preannunciato ulteriori rialzi. Questo perché, ha dichiarato la presidente Christine Lagarde, “l’elevato grado di incertezza” suggerisce “l’importanza di un approccio dipendente dai dati per le decisioni sui tassi”.

In quali scelte d’investimento tradurre tutto ciò?

Non finisce qui. Ha aumentato il costo del denaro anche la Banca Svizzera: su di 50 punti base, all’1,5%. Ritocco al rialzo anche per la Bank of England, che ha portato i tassi al 4,25%, con un balzo di 25 punti base, dopo dati sull’inflazione ancora molto alti. In un contesto come questo, la domanda per l’appunto è: in quali scelte d’investimento tradurre tutto ciò?

L’unica soluzione è affidarsi a un solido piano d’investimento, studiato in maniera molto personalizzata – come la normativa prescrive – insieme a un consulente finanziario, senza eccedere con l’entusiasmo o con l’ansia per gli alti e bassi dei mercati. Come ti ricordiamo sempre, puoi fugare ogni dubbio e soddisfare ogni curiosità con il tuo consulente di fiducia, come per esempio il Financial Coach di ING.

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